Bisogna dare atto alla fase 2 del post-quarantena di una cosa: è stata quasi meglio di un insegnante d’arte, scaraventandoci addosso la nostra assoluta dipendenza dallo sguardo. L’uso delle mascherine, come ben sappiamo, ci ha privato di tutta quella comunicazione non verbale fondamentale nello slalom olimpico delle piccole incomprensioni quotidiane (tipo quelle in fila alla cassa del supermercato, per intenderci) e ci ha obbligato a riversare la nostra attenzione sugli occhi, sulla loro espressività, e sul cono ottico della prospettiva. Quello che dalla nostra pupilla si apre in un cerchio verso l’orizzonte. E già così sembrerebbe poesia.
Sugli sguardi si è concentrata Miresi, artista italiana attiva a Berlino dagli anni Novanta, con una formazione da astrattista, oggi impegnata in una ricerca che si sviluppa attraverso supporti diversi: pittura, fotografia, musica. Nello specifico, a Roma presso il museo Centrale Montemartini, è ancora possibile vedere una parte del suo lavoro, in quello che è un tassello di un più ampio progetto.
È stata prorogata, infatti, fino al 23 agosto la mostra “Miresi. Sguardi e Architetture. Berlino / Roma / Barcellona”, che fa parte del concetto espositivo “From La Biennale di Venezia & OPEN to Rome. International Perspectives”. Ora, togliendo un po’ di anglicismi e facendo il punto, questo progetto, attivo dal 2016 e curato da Paolo De Grandis, Claudio Crescentini e Carlotta Scarpa, vuole intendersi come un ponte tra Venezia e Roma, portando alcune installazioni provenienti da “La Biennale” e da “OPEN Esposizione Internazionale di Sculture ed Installazioni”, direttamente legata alla “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia”, nei musei e negli spazi romani.
Perché è importante un progetto del genere? Perché le installazioni artistiche si modificano a seconda degli spazi. Si adattano, riempiono, respirano e restituiscono in maniera sempre diversa, come un prisma sfaccettato.
La mostra di Miresi si suddivide tra il museo Centrale Montemartini e la Galleria d’Arte Moderna. La prima è dedicata in particolare alle architetture industriali, mentre nella seconda è presente un’installazione di fotografie di volti, di sguardi europei. I lavori, pitture e fotografie, dialogano coerentemente con quelli che sono i luoghi che li accolgono, amalgamandosi in un bell’impasto visivo. I lavori di Miresi si affacciano sulla “Sala Caldaie”: oltre 1.000 metri quadrati che ospitano sui lati lunghi sculture di epoca ellenistica e romana, con al centro un mosaico del IV secolo d. C. raffigurante una maestosa scena di caccia, e sulla parete di fondo una gigantesca caldaia.
Su pannelli neri, emergono le immagini dell’universo estetico di Miresi, in un dialogo costante o, se preferite, in un filo narrativo che lega l’una con l’altra attraverso Berlino e il Mediterraneo. L’amore per la sua città elettiva, Berlino, traspare fin da subito nelle suggestioni architettoniche rese essenziali dalla tavolozza cromatica: una scala di grigi addolcita dal color sabbia della carta intelata che diviene, invece, luce dai richiami crepuscolari nella fotografia. Potsdamer Platz e il Bundestag escono dalla loro identità geograficamente specifica, per diventare echi di luci e ombre che si stagliano nel cielo. Quasi come un ricordo lontano de La città che sale di Boccioni, il dinamismo della Capitale tende verso l’alto in un intreccio di linee. Dalle linee si passa ai piani, alle superfici. Nude, essenziali, severe. Sono quelle di un trittico fotografico che Miresi dedica al Museo Ebraico di Berlino, opera dell’architetto Daniel Libeskind. Si concentra su tre prospettive dell’opera Shalechet – Foglie cadute di Menashe Kadishman. Qui il legame tra sguardo e architettura si fa stridente, soffocante. I volti non sono solo quelli, sofferenti, delle maschere sul pavimento, ma anche quelli beffardi e angoscianti, delle pareti che racchiudono la sala. Interessante è il successivo vis-à-vis nel quale ci infiliamo nel mezzo per poterlo apprezzare, quasi fossimo degli intrusi tra due bevitori di tè, tirato su per la serie fotografica della “Sagrada Familia” (2019) e del quartiere berlinese di Karlshorst.
Di nuovo, Miresi prende degli elementi architettonici e li mette sotto una lente d’ingrandimento come potrebbe fare uno scienziato chinato sul microscopio. Giocando con la luce naturale, le forme, gli spazi vuoti e quelli pieni. La “Sagrada Familia” protende verso l’alto, dilatandosi, moltiplicando i propri moduli in maniera molecolare e aprendo occhi alieni e divini sull’uomo che alza lo sguardo sopra di sé. Al contrario, il dettaglio del “buco” nella pavimentazione che si trova nella vecchia centrale elettrica di Karlshorst, è una voragine che risucchia verso il basso. Geometricamente definita, nei suoi mattoncini posti in verticale che aumentano l’effetto visivo di declino. Due sguardi opposti, contrari, ma che portano entrambi verso l’ignoto perché, e qui cito un saggio del geografo ed ex docente universitario Franco Farinelli, la Terra è una sfera, se fai il giro per largo o per lungo, sempre allo stesso punto ritorni.
Arriviamo dunque a parlare dell’ultima opera: quella a mio avviso più interessante, sicuramente una delle più suggestive, “Inquisito/Inquisitore” (1993). Si tratta di tre dipinti ad olio che compongono un trittico dal gusto vagamente astratto, ma con una simbologia segnica chiara. Sono tre sguardi, in successione. Indagatori, penetranti, e allo stesso tempo trasparenti. Omologhi se non fosse per quel cenno di colore nello sfondo che richiama la bandiera tedesca. Insomma, dei voyeuristi, che vogliono scrutare rimanendo nell’ombra. Miresi però li disvela nella loro umana pena di essere, a loro volta, scrutati. In una concatenazione infinita dove tutti ci ritroviamo ad essere inquisiti ed inquisitori, appunto. Sempre più esposti, sempre più trasparenti in un gioco a perdere.
Viene da chiedersi se questa pandemia, con i suoi processi psicologici ed emotivi attivati in maniera non più meccanica, perché mica siamo uomini moderni noi, no, siamo uomini contemporanei! E quindi attraverso un flusso digitale che ha inondato il pianeta, ha fatto emergere in maniera esasperata l’azione dello sguardo, ma anche della vuotezza di esso. Uno sguardo perennemente solleticato, a cui è richiesta sempre maggiore velocità e ricerca. Di cosa? La risposta ai posteri.
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