«Secondo lei Detari vale più o meno del 50 per cento di Platini?». L’interrogativo da sibilla cumana me lo rivolse, con un sorriso leggermente ironico sul volto, l’Avvocato. Era il 16 aprile 1988 ed avevo ormai fatto lo scoop più importante della mia carriera di giornalista sportivo.
La “Gazzetta dello Sport” mi aveva inviato a Francoforte, in Germania, dove la squadra locale, l’Eintracht, avrebbe dovuto incontrare il Borussia di Mönchengladbach in un turno di Bundesliga. Una partita di nessun interesse per l’opinione pubblica italiana. Ma la stella dell’Eintracht, allora, era un fantasioso centrocampista ungherese, Lajos Detari, che piaceva molto alla Juventus. «Vai a Francoforte perché allo stadio dovrebbe esserci Vycpalek a visionare Detari», mi avevano detto i capi dalla redazione. Cestmir Vycpalek, cecoslovacco, ex ottimo giocatore, poi allenatore della Juve nei primi Anni Settanta, vincitore dello scudetto 1972-73, era rimasto legato ai bianconeri diventandone il capo degli osservatori. Lo conoscevo soltanto di vista e, arrivato in quello che si chiamava ancora “Waldstadion”, cominciai a girare per le gradinate della tribuna centrale, dove pensavo potesse aver preso posto l’inviato iuventino, quando, alle mie spalle, risuonò forte un’imprecazione in italiano. Mi voltai di colpo, più d’istinto che per aver riconosciuto la voce. Ad aver esclamato un «porca…!» era stato Giampiero Boniperti, presidente della Juventus, che mi aveva riconosciuto ed evidentemente non era troppo soddisfatto di vedermi in quel frangente.
Accanto a lui un signore dai capelli argentei, ondulati: Giovanni Agnelli. L’Avvocato. Il padrone della Juventus. Il presidente della Fiat. Sorpresa e imbarazzo in tutti e tre. Sì, anche da parte mia, ovviamente. Sul momento non riuscii a profferire altro che un banale saluto e tra noi seguirono alcune parole di circostanza: «Sto andando a Brema, per vedere i lavori di una barca, così ho pensato di fermarmi un attimo qui», disse Agnelli, quasi cercando una giustificazione alla sua presenza nello stadio. Con un certo pudore mi allontanai di qualche metro dai due personaggi. Ormai avevo capito che il pezzo che avrei inviato al giornale sarebbe stato ben diverso da quello che fino a quel momento pensavo avrei dovuto scrivere.
In un assolato pomeriggio Agnelli e Boniperti andarono a piazzarsi in curva, posti in piedi. Io mi appostai a qualche decina di metri di distanza. Dopo uno scialbo primo tempo e una ventina di minuti del secondo, durante i quali il famoso Detari aveva toccato palla poche volte, i due s’incamminarono verso l’uscita. Avevano visto abbastanza di una gara che sarebbe, per la cronaca, terminata 2-0 a favore dei padroni di casa. Io lasciai le gradinate con loro, affrettando il passo per raggiungerli.
«Come possiamo andare all’aeroporto?», mi chiese l’Avvocato. Rimasi stupito: mi aspettavo che li attendesse quantomeno una berlina con l’autista. Invece erano venuti allo stadio in taxi. A partita ancora in corso, di taxi nei dintorni non c’era l’ombra. Leggermente spazientito Agnelli mi domandò se sarebbe stato possibile ottenere un passaggio da un’auto della polizia. Faticai nel mantenere un certo aplomb, spiegandogli che in Germania la polizia non dava strappi a privati cittadini che erano andati allo stadio. Però offrii loro ospitalità sulla mia automobile. Agnelli accettò ringraziando, ma con Boniperti dovette sobbarcarsi ancora un paio di centinaia di metri a piedi, prima che raggiungessimo il parcheggio dove avevo lasciato l’auto presa a noleggio. Era ovviamente un’utilitaria, una modesta, piccola, Opel Corsa, per giunta a due sole porte.
L’Avvocato non disdegnò di accomodarsi nella vetturetta di una marca della concorrenza. Boniperti sgattaiolò sul sedile posteriore. Seduto accanto a me che ero al volante, piuttosto nervoso, Agnelli cominciò, come solo lui sapeva fare, a pormi domande sulla partita. Cercavo di rispondere nel modo meno deludente possibile, per un intenditore di calcio quale l’Avvocato, e nel concentrarmi sbagliai persino strada. Tanto che fu proprio il mio illustre passeggero a indicarmi dove avrei dovuto girare per raggiungere il terminal dei voli privati, sulla cui piazzola attendeva il jet della Fiat. Un istante prima che spegnessi il motore, ormai giunti a destinazione, Gianni Agnelli mi rivolse l’agghiacciante domanda: «Secondo lei Detari vale più o meno del 50 per cento di Platini?». Furono attimi terribili. Non soltanto non sapevo cosa replicare, ma sapevo bene, invece, che Boniperti stravedeva per l’ungherese. Anzi, a tutti noi addetti ai lavori risultava che la Juve lo avesse in pratica già acquistato: «Direi proprio meno…», ebbi l’ardire di rispondere, con tono quasi impercettibile per l’imbarazzo di essere stato chiamato a simile giudizio. «Anche secondo me…», fu il secco commento di Agnelli. Boniperti era livido in volto.
Prima di salutarli chiesi al presidente della Fiat se avessi potuto usare il contenuto del colloquio e i particolari del nostro incontro a fini professionali: «Ma certo, lei è un giornalista, e poi scrive per un giornale del gruppo, no…?», fu la cortese risposta. Il giorno dopo la “Gazzetta dello Sport” uscì con questo titolone di prima pagina: “Agnelli a Francoforte boccia Detari”.
Di lì a qualche settimana la mia vita professionale – e non solo – avrebbe avuto la svolta più importante. Una svolta che, in un certo qual modo, avrebbe riguardato per molti anni a seguire anche gli stessi rapporti tra me e l’Avvocato: quel “tassista” di Francoforte era stato assunto come capo ufficio stampa del Gruppo Fiat in Germania.
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