Guida per amare i tedeschi

Record teutonici

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© il Deutsch-Italia
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MADE IN GERMANY

Il Made in Germany ha compiuto cento anni nel 1987. I tedeschi erano i giapponesi del secolo scorso. Andavano in giro per il mondo a copiare senza pudore. Il primo dei Krupp si intrufolò come semplice impiegato in un’azienda dell’acciaio a Sheffield e nel cuore della figlia del padrone. Lei gli consegnò in una notte di passione i segreti dell’acciaio britannico e lui se ne tornò subito in patria senza curarsi di lasciare alle spalle un cuore infranto.

Copiavano locomotive e telai, macchine utensili e il design di forchette e cucchiai, finché gli inglesi si stancarono e obbligarono i tedeschi a marchiare i loro prodotti con un Made in Germany, che avrebbe dovuto denunciare contraffazione e cattiva qualità. Un’imposizione che si risolse in un boomerang. Il marchio d’infamia divenne garanzia di alta qualità e affidabilità. Per oltre un secolo. Fino a ieri.

Ancora nell’anno del centenario, il plus nell’import-export raggiunse la cifra record di 110 miliardi di marchi, 110mila miliardi di lire al cambio attuale. Dopo la riunificazione invece di aumentare la loro potenza internazionale, i tedeschi hanno cominciato a perdere terreno. «La Germania è vittima del suo successo», dice Reinhard Furrer, astronauta e fisico, «si è dormito sugli allori.»

Operai che costano troppo e lavorano poco, produttività in calo, forti tasse, manie dei «verdi» che alzano i costi di produzione, il marco troppo forte che aumenta il prezzo delle esportazioni. Tutto vero, ma anche uno scadimento progressivo del Made in Germany, che oggi viene indicato con una parola «nata» dopo l’unificazione, Standort, una di quelle sintesi brutali tra due termini, che obbligano gli stranieri a contorti giri di parole. Comunque indica genericamente il «luogo di produzione», si intende la Germania, e viene seguito dal commento, problemi dello Standort.

Da tempo le massaie sanno che quei magici (e cari) che garantivano lavatrici e lavastoviglie, solide come Mercedes e indistruttibili, di tedesco hanno solo il nome, e sono assemblate chissà dove per il mondo. Tanto vale comprare un elettrodomestico d’altra nazionalità, che costa meno della metà, e magari è altrettanto affidabile.

E anche la Mercedes non è più quella di un tempo. Fino a ieri si doveva prenotarla con anni di anticipo, e venditori furbi la rivendevano a un prezzo superiore a quello della «casa» a clienti impazienti. Oggi, l’ammiraglia di Stoccarda non è più uno status symbol, né a New York né in Arabia Saudita. Anzi, è indice di ostentazione, e gli stessi tedeschi si vergognano a mostrarsi al volante d’un’auto dalla stella a tre punte innanzi ai loro dipendenti. La Mercedes è arrivata a pronunciare la parola «sconto», che era considerata un’imperdonabile bestemmia, rivela «Der Spiegel».

Care, ingombranti e perfino poco affidabili. La 190 in Germania è la vettura dei taxisti, i quali da esperti si lamentano dei frequenti guai. E le statistiche dell’ADAC, l’Automobil Club, dimostrano: la Toyota Starlet è l’auto con meno difetti, dopo quattro anni di guida, nella classe delle utilitarie; la Mazda 323, la Mitsubishi Colt e la Toyota Corolla occupano le prime tre posizioni nella classe appena superiore; nella classe media la Mazda 626 costringe al secondo posto la Mercedes 190 Diesel, seguita da altre tre giapponesi, per trovare infine a un umiliante quinto posto la Mercedes 190 a benzina. Le case tedesche sono affidabili solo nel settore più elevato: Mercedes 200, Bmw e Mercedes 500 conquistano le prime tre piazze. Ma per avere affidabilità il prezzo è molto alto. Le giapponesi, snobbate fino a ieri, offrono prestazioni superiori, costano meno, e vengono prodotte più rapidamente delle vetture Made in Germany. E come le lavatrici, si pensa di produrle in Messico o in Cecoslovacchia, o le Bmw negli Stati Uniti, dopo aver scelto il posto in base alle assicurazioni dei politici e dei sindacati locali: «Qui niente scioperi, e salari bassi».

Ma chi comprerà una Mercedes messicana, o una Bmw costruita al di là dell’Atlantico? Il Made in Germany si trasforma in Macie by Germany. I tecnici tedeschi sorveglieranno la produzione e garantiranno la qualità. Quanto costerà in marchi la loro parola?

Si investe all’estero perché il lavoro costa di meno e le tasse sono meno elevate. «Un operaio tedesco costa quanto 17 polacchi e 48 russi», denuncia il capo dei datori di lavoro, Murmann, e si attira le ire dei sindacati. Ma dice il vero, e aggiunge: in quanto all’affidabilità, un operaio di Praga è «sicuro» quanto il suo collega di Norimberga. «Il mito del lavoratore specializzato?», si domanda «Wirtschaftswoche», il più autorevole settimanale economico; «si sta estinguendo come i panda. Era lui il garante del Made in Germany.»

Un operaio della Opel produce 18 auto in un anno, il collega della Mazda arriva a 30. «I giapponesi producono meno caro, meglio, e più rapidamente di noi», insiste la rivista.

In Italia le macchine «girano» per 73 ore alla settimana, in Olanda 74, e in Belgio per 77. In Germania per 53.

Appesantite dalle tasse, bloccate dai «verdi» che impongono misure ambientali che rincarano la produzione, le «case» emigrano: la Hoechst ha investito 18 milioni di dollari per un laboratorio di neurobiologia molecolare negli Stati Uniti. La Bayer ha aperto un centro di ricerche per 130 milioni di dollari a Yale, la Basf vicino a Harvard per 100 milioni, la Schering investe sempre negli Usa per 200 milioni.

«Il 60 per cento delle nostre industrie non è più concorrenziale a livello mondiale», ammette Roland Berger, il più famoso consulente aziendale. E il prodotto nazionale pro capite crolla dal quinto posto di prima dell’unificazione al sedicesimo, dopo Italia e Austria. I tedeschi chiudono gli occhi e continuano a chiedere «conti separati» con la ex DDR, scomparsa dalla carta geografica ma non dalle statistiche. Quando conviene.

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Roberto Giardina, dal 1986 in Germania, è corrispondente per il QN (Giorno-Resto del Carlino- La Nazione) e Italia Oggi. Autore di diversi romanzi e saggi, tradotti in francese, spagnolo, tedesco. In Germania è uscito "Guida per amare i tedeschi", "Anleitung die Deutschen zu lieben" (Argon e Goldmann), "Complotto Reale" (Bertelsmann), "In difesa delle donne rosse" (Argon), "Hundert Zeilen", "Berlin liegt am Mittelmeer" (Avinus Verlag), "Pfiff", romanzo sulla Torino degli Anni Sessanta e la rivolta operaia di Piazza Statuto; "Attraverso la Francia, per non dimenticare il Belgio"; "Lebst du bei den Bösen?", "vivi tra i cattivi, la Germania spiegata a mia nipote"; e recentemente "Il Muro di Berlino. 1961-1989".

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