ICH LIEBE YOU
Il tedesco è più facile dell’inglese. Questo mio giudizio provoca reazioni irritate, persino furenti. O qualcuno ride pensando che sia una battuta.
«Non lo scriverai anche nel tuo libro», si è insospettita Fernanda, mia moglie.
«Perché no? In fondo è un pamphlet», ho ribattuto sulla difensiva.
«Un pamphlet, non un’assoluta follia», ha concluso lei.
Bene, sarà un pamphlet folle, ma insisto: la lingua di Goethe è più facile dell’idioma di Shakespeare.
A livello di ristorante, per ordinare una bistecca o una birra, l’inglese è l’ideale. In quindici giorni posso conquistare quelle conoscenze base per districarmi con il cameriere o in albergo. Con il tedesco ciò non è possibile. Bisogna costruire la frase, sapere che la bistecca desiderata va messa all’accusativo, e che Doppelzimmer, una camera doppia, è neutro.
L’inizio è estremamente più complicato. E dopo che il tedesco diventa più facile. Invece più si progredisce e più il facile inglese diventa incomprensibile, o ingannevole. Un mio collega, corrispondente da Londra, stravede per l’inglese, com’è giusto, «la lingua più ricca al mondo con 500mila vocaboli, come nessun altro idioma al mondo». Per la verità, secondo quanto mi assicurano, il tedesco ne vanterebbe un milione, ma non li ostenta. Un intellettuale ne usa non più di 15mila.
In realtà la vanteria inglese è un bluff: ci si appropria di parole eschimesi, hawaiane o creole, stravolgendone con arroganza pronuncia e scrittura. È un pot-pourri di slang, una lingua gonfiata come il polistirolo espanso, dove una parola cambia di significato di luogo in luogo, e di anno in anno.
E poi la pronuncia. Posso parlare inglese ma non essere mai sicuro di venir capito ovunque, e soprattutto di capire. Perché seguo senza difficoltà una conferenza stampa con l’americano Ivory, e mi sento incerto alle prese con il suo connazionale Brian de Palma che con mio disgusto pronuncia bok per book, libro, due «O» uguali a una «U», il primo insegnamento che mi fu impartito?
«Perché hai studiato a Londra e non negli States», mi spiega con ovvietà l’amico che vive (felice) a Los Angeles. Lui sarà un esperto dei vari dialetti delle ville di Hollywood, però si troverà in impaccio con un tassista di Liverpool.
Sono convinto che l’inglese lo parlino in modo comprensibile tutti, tranne gli inglesi e gli americani. L’ho scoperto al mio primo viaggio oltre Manica, che compii in treno per non perdermi le bianche scogliere di Dover.
Il controllore britannico, il mio primo impatto con un «vero» isolano, domandò a un passeggero del mio vagone dove fosse diretto.
«London», rispose. L’indigeno non comprese, e ripeté la domanda. Al quarto o quinto «London», vidi la faccia del controllore illuminarsi, fulminato dalla comprensione.
«Ah, Landon», corresse con superiore disgusto. Ebbi un presentimento. Non potevo contare sui miei anni di studi, sulla mia presuntuosa traduzione di Giulietta e Romeo ferma al primo atto, per sperare di sopravvivere senza problemi in quella mia lontana estate londinese.
Commenti