ITALIANI DI GERMANIA
Più che di emigrati italiani in Germania si dovrebbe parlare di italiani che vivono in Germania: non considerano il loro distacco definitivo. Si pensano solo provvisoriamente all’estero, un atteggiamento psicologico facilitato dalla vicinanza, dalle vie di comunicazione più comode e meno care. E magari, un anno alla volta, finiscono col restare tutta la vita nella Repubblica Federale.
Dopa la grande ondata degli anni Sessanta sono stati superati sia dai turchi (un milione e 800mila) sia dagli ex jugoslavi (poco più d’un milione), e con 557.709 unità al 31 dicembre del ’92, sono al terzo posto, distanziando sempre greci (346mila) e polacchi (285mila). Gli emigranti di seconda e terza generazione ormai non si arrampicano più sulle impalcature dei cantieri edili né si sprofondano nelle miniere della Ruhr. Gli italiani sono diventati piccoli imprenditori, negozianti. I camerieri prima o poi finiscono coll’aprire un locale, e magari un secondo.
Sembrano perduti in un passato remoto, e incredibile, i tempi in cui a Biberach, grosso centro della Svevia, si affittavano case a tutti «tranne che agli italiani», o delle baracche come lager per i nostri operai intorno alla Mercedes, che vi vivevano come reclusi volontari per poter risparmiare e mantenere le famiglie in Calabria o Sicilia. La minima «evasione» avrebbe pregiudicato una giornata di lavoro.
Ho visto alla TV regionale di Colonia un servizio su uno spazzino italiano che andava in pensione dopa un’intera vita dedicata a tener pulite le strade cittadine. Era diventato un personaggio, perché al lavoro cantava a squarciagola e con bella voce romanze d’opera, rallegrando il risveglio dei concittadini di Heinrich Böll. Non parlava tedesco, e non era mai andato una volta al ristorante con gli amici, cucinandosi gli spaghetti su un fornellino nella sua unica stanza. Solo a questo prezzo era riuscito a far laureare tutti i suoi figli. «Questo è il compito di un uomo che ha famiglia», commentava, sorpreso che la TV lo trovasse così interessante da andarlo a intervistare.
Un altro italiano giunto in Germania negli stessi anni del netturbino di Colonia è il siciliano Giuseppe Vita, diventato capo della Schering, la multinazionale farmaceutica di Berlino. La notizia ha destato scarso interesse in Italia, perché non si «adatta» al cliché del nostro emigrate né a quello dei tedeschi che «odiano» gli stranieri. L’architetto Renzo Piano ricostruisce il «cuore» di Berlino, la Potsdamerplatz, che dovrà tornare a unire le due parti della città. Sempre a Berlino, Abbado dirige la Filarmonica. Le Mercedes, orgoglio nazionale, vengono «vestite» dal designer italiano Bruno Sacco. A Bonn, l’Opera e nelle mani di Giancarlo Del Monaco, che è riuscito a far dimenticare di essere figlio del tenore Mario. Gli hanno affidato un palcoscenico di provincia e con le sue idee ha attirato l’attenzione di tutto il mondo della lirica. Lo hanno accusato di spendere troppo, di aver sfondato il bilancio, il «solito italiano spendaccione», ma aveva ragione lui e gli hanno chiesto scusa.
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