I francesi hanno Parigi, gli inglesi guardano la Regina, anche se sbirciano nel décolleté delle nuore reali, perfino gli olandesi si commuovono in gruppo innanzi a un tulipano. Ma noi? Noi abbiamo una capitale solo per parlarne male, e i tedeschi non sanno bene neppure dov’è la loro capitale: a Bonn, piccola città sul Reno, o nella Berlino del Kaiser, di Hitler, e del «muro» invisibile e sempre presente? Non basta un voto del Bundestag per convincere milioni di cuori.
Gli italiani possono rifugiarsi nella storia: il cuore palpita ancora per il Comune, anche se i gigli borbonici vengono sostituiti dal faccione di Maradona. C’è il Risorgimento, e dopo il fascismo abbiamo la Resistenza. In Germania è più difficile: confrontarsi con la storia esige un esame di coscienza. Questo spiega forse perché in Germania il primo Heimat ebbe successo, e il secondo molto meno.
«Tutto quel che viene mostrato nella prima serie non esiste più», ha detto il regista Reitz. Prati e boschi, le tranquille strade di Schabbach, i vestiti, il modo di parlare, appartengono a un passato che la maggioranza dei tedeschi non ha mai conosciuto. È la nostalgia dell’uomo inurbato per una campagna da favola, per una storia locale fatta di vicende di famiglia, di racconti orali, con pochi telefoni, qualche radio, niente televisione: la memoria collettiva di una regione. La storia parla in dialetto. Quella con la “Maiuscola ha la voce stridente del Fuhrer.
Un lungo discorso per cercare di tradurre (e parzialmente) il termine Heimat. Il Vaterland, la patria solenne, è una parola che molti tedeschi non riescono a pronunciare senza imbarazzo e di cui Helmut Kohl ha abusato durante la lunga (esta della riunificazione. In Vaterland rimbombano i cannoni dei Krupp e il ritmato passo dell’oca. Vaterland pretende il nostro sangue. Heimat il nostro amore. Vaterland fe neutro, Heimat femminile (in passato, mi svela lo scrittore von Crockow, era maschile, e per lui e per me questi particolari hanno importanza). Vaterland evoca il Reno possente di Sigfrido e Wagner, e anche della bella letale Loreley. Heimat evoca una birreria sulle sponde dello stesso fiume, Vaterland è la patria con in più il senso dello Stato. Heimat è patria con il sentimento.
Ma il sentimento di che cosa? Per un nomade l’Heimat può essere la tenda, anche in territorio nemico: nella Heimat ci si sente a casa propria. Quale sarà l’Heimat di un Günther Grass, nato in una città divisa, dalle famiglie divise, come Danzica, tedesca e polacca, né tedesca né polacca? Per il bavarese Franz Beckenbauer l’Heimat sarà forse il muretto contro cui scagliava la sua prima palla, o l’odore dello spogliatoio. Heimat può essere il sorriso della donna amala, o il ricordo degli occhi del nostro primo amore. E i! luogo dove si è trascorsa l’infanzia, il cortile d’un palazzo in periferia, la cabina d’una chiatta, la fattoria sperduta in pianura. Heimat è nostalgia.
Il film di Reitz si ispirava alla lontana al libro di Kurt Tucholsky Deutschland, Deutschland über alles, pubblicato nel ’29, le cui ultime righe dicono pressappoco: «Quel che rimane, al di là d’ogni contraddizione, senza bandiera, senza sentimentalismo, e senza brandire la spada, è il tranquillo amore per la nostra Heimat». O si dovrebbero ricordare le parole di Ernst Bloch: «Heimat è un’utopia non risolta, il paradiso terrestre ».
Per la patria, in Italia e in Germania, non si piange più, e nemmeno si muore. Al massimo si può fare il «tifo», il che non mi sembra deprecabile.
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