Guida per amare i tedeschi

La Germania aveva gli occhi verdi

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La Germania aveva gli occhi verdi

I TEDESCHI SONO PUNTUALI

Alla stazione di Bonn sono in attesa dell’Intercity «Bertha von Suttner» che mi porterà direttamente sotto le piste dell’aeroporto di Francoforte. Fa molto freddo e la neve è gelata. Normale in gennaio, poco normale invece l’annuncio che giunge dagli altoparlanti: «L’Intercity Wolfgang Mozart partito da Dortmund e diretto a Monaco ha cinque minuti di ritardo», comunica con voce professionale lo speaker ferroviario.

Trascorre qualche minuto, e Mozart non è ancora giunto. «Anche l’Intercity Richard Wagner, proveniente da Brema e diretto a Stoccarda, è in ritardo», annuncia lo speaker. Breve pausa, e quindi: «di sette minuti». Arriva Mozart, e Wagner dovrebbe tallonarlo. Ecco di nuovo gracchiare l’altoparlante. Mi correggo, gli altoparlanti tedeschi alle stazioni non gracchiano. Frusciano. «L’Intercity von Ludendorff ha 15 minuti di ritardo». Annuncio secco, punto e basta. Si avverte tensione nella voce. Forse è solo una mia impressione. Mentre cerco di ricordare che cosa abbia mai compiuto von Ludendorff per meritarsi un «Intercity» con il suo nome, ecco un altro annuncio. Non è più l’immaginazione, lo speaker prova panico: «L’Intercity Wienerblut ha venti minuti di ritardo », e segue una sequela di comandi, come su una portaerei in attesa dell’attacco dei kamikaze giapponesi: chi attende Wagner passi dal secondo binario al terzo, chi spera in von Ludendorff non perda fiducia, ma a Coblenza cambi le coincidenze, «Ernst Moritz» è già partito, prenda «Franz Schubert» fino a Magonza, e lì salga su «Brùder Grimm»…, l’imperdonabile « Wienerblut» invece vi condurrà comunque in tempo all’appuntamento con « Heinrich Heine » a Francoforte per Basilea. È anche lui in ritardo. Una sequela di nomi, di orari, un intrico di coincidenze che ricorda L’albergo del libero scambio di Feydeau. No, a lui non hanno dedicato alcun treno. Per gli «Intercity» valgono i criteri del Nobel: vincono solo gli autori seri. Per orizzontarsi in una stazione tedesca più che un orario serve un’antologia, cultura musicale e riflessi pronti.

Ancora un annuncio. Toccherà a Frau von Suttner, autorevole pacifista? No, lo speaker adesso tradisce qualcosa di cattivo nella voce: «L’Intercity Friedrich Schiller per Francoforte e Norimberga ha 22 minuti di ritardo…», pausa, «ma aveva già 24 minuti di ritardo alla frontiera olandese». Schiller arriva da Amsterdam. L’onore è salvo, la Germania sotto la neve ha recuperato 120 secondi. Giungerò fuori tempo massimo all’aeroporto di Francoforte.

Per fortuna non ho valigie, ma se le avessi potrei scaraventarle su un carrello che mi attende alla banchina e dal sottosuolo giungere al piano partenze, al check-in, di scala mobile in scala mobile.

Il rapporto tra Italia e Germania è quello che esiste tra i carrelli bagagli all’aeroporto di Roma e di Francoforte, o di qualsiasi altro scalo tedesco o italiano. I carrelli della Città Eterna sono naturalmente dorati e quelli tedeschi «semplicemente» in acciaio, e tra loro corre la differenza che c’è tra un’utilitaria nostrana e una Mercedes vecchia maniera. Le ruote dei carrelli italiani si inceppano, si rifiutano di proseguire secondo una linea diritta, vengono prese da crisi di coscienza, e naturalmente non sono adatte alle scale mobili. I carrelli tedeschi, solidi e squadrati, avanzano (come Panzer, mi viene facile il paragone, ma lo evito perché i tedeschi equivocano e si offendono). Avanzano dunque come solidi carri, eredi della carretta di Mutter Courage, provengono sempre diritti dalla Guerra dei Trent’anni. Sono nati per rendere un servigio e non per piacere, hanno freni a prova di baule e ovviamente «vanno» anche su e giù per le scale mobili. Si arriva in treno nel sotto-suolo dell’aeroporto e si sale con loro per tre piani fino al check-in.

Non mi sembra un’idea geniale né costosa, ma perché non ci ha pensato il designer nostrano? O un carrello bagagli è più difficile di una Ferrari?

«Il suo volo è chiuso», mi annuncia l’uomo dietro il bancone. Una sentenza di morte in qualsiasi aeroporto.
«Giungo da Bonn», ribatto. Lui alza le spalle, anche i tedeschi hanno imparato a parlare con il corpo, ma usano ancora le mani come chi abbia studiato una lingua straniera in laboratorio.
«Lo sa che Bertha von Suttner aveva 25 minuti di ritardo?», gli comunico.
L’uomo in divisa tace, aggira il bancone, mi prende sottobraccio, mi trascina all’uscita, chiama un pullman solo per me, gracchia in un telefono, lui gracchia, non fruscia, l’aereo mi attende.
«Perché non ha valigie», mente. No, è merito di Bertha. Lo so che pensate a un’esagerazione, ma vi sbagliate.

Quando scrissi sul mio giornale che i treni tedeschi «possono» anche giungere in ritardo, un lettore teutonico trapiantato in Italia mi scrisse risentito: come osavo criticare la Bundesbahn quando i treni italiani non erano «mai» in orario? Esagerava, e cercai di spiegargli: il fatto che i treni tedeschi comincino a giungere in ritardo non mi irrita. Mi rassicura.

Talvolta era tanta la mia fiducia nella loro puntualità che ho rischiato di sbagliare treno. Bonn è una stazione di passaggio e sullo stesso binario i convogli si succedono al ritmo di pochi minuti. Io salivo di corsa sul treno giunto all’orario convenuto. Perché avrei dovuto controllare? Be’, un paio di volte era Wolfgang e non Bertha. Ora guardo i cartelli.

Anche i treni germanici non sono più quelli di una volta. Hanno voluto cambiare il «Logo», ed al posto di un «DB», Deutsches Bundesbahn, due lettere sinuose come MM, Marilyn Monroe, che secondo gli psicologi erano rassicuranti «perché femminili», sprecando ben 25 milioni di marchi sono giunti a un «DB» rigido e virile. Spartano come i convogli della nuova Germania unita.

I treni tedeschi per me erano un paradiso, e non perché sia un maniaco sessuale. In treno si può lavorare, leggere, scrivere, pensare. Mi precipitavo in vagone-ristorante, ordinavo e lavoravo. C’era sempre posto, a qualsiasi ora, e a qualsiasi ora si poteva ottenere quel che si desiderava: uova strapazzate a mezzogiorno, una bistecca al tea time, senza la pretenziosità e senza i prezzi dei nostri vagoni-ristorante. Non era l’Orient Express, ma una familiare trattoria su ruote. Kneipe, alla tedesca.

Ma qui hanno un vizio orrendo. Il modernismo. Hanno abolito il «Rheingold», l’Oro del Reno, altro mitico convoglio che correva lungo il fiume, hanno dato una raddrizzata alla D e alla B, e hanno ridotto alla metà i vagoni- ristorante. Invece delle comode poltrone altmodisch hanno sistemato delle traballanti seggioline tra il Thonet e la pensione riminese. Il menù è ridotto a tre piatti, sempre quelli per un mese, a maggio polpettine con i capperi, a giugno Bratwurst della Turingia, e c’è sempre coda dietro di voi. Come avere il coraggio di difendere il vostro posto continuando a ordinare tazze di tè per finire il saggio su Schopenhauer? Vi sospingono via con gli occhi.

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Roberto Giardina, dal 1986 in Germania, è corrispondente per il QN (Giorno-Resto del Carlino- La Nazione) e Italia Oggi. Autore di diversi romanzi e saggi, tradotti in francese, spagnolo, tedesco. In Germania è uscito "Guida per amare i tedeschi", "Anleitung die Deutschen zu lieben" (Argon e Goldmann), "Complotto Reale" (Bertelsmann), "In difesa delle donne rosse" (Argon), "Hundert Zeilen", "Berlin liegt am Mittelmeer" (Avinus Verlag), "Pfiff", romanzo sulla Torino degli Anni Sessanta e la rivolta operaia di Piazza Statuto; "Attraverso la Francia, per non dimenticare il Belgio"; "Lebst du bei den Bösen?", "vivi tra i cattivi, la Germania spiegata a mia nipote"; e recentemente "Il Muro di Berlino. 1961-1989".

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