Guida per amare i tedeschi

Al cabaret, con Marlene

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Noi abbiamo compiuto la revisione del nostro passato con una semplice alzata di spalle. Un documentario trasmesso in TV, accompagnato da un commento meno serio d’una canzonetta, ed ecco fatto. In Germania il dibattito sul «passato che non passa» aperto nell’ 86 dallo storico Ernst Nolte è ancora in corso, faticoso, tormentato.

Il professore che (per un’imperfezione a una mano) non ha compiuto il servizio militare, mi ha raccontato i suoi anni di guerra, lui solo allievo maschio fra tante compagne di corso alla facoltà di filosofia di Heidelberg, con un maestro che si chiamava Heidegger. La sua tesi (discutibile ma non rozza come la spacciano i suoi avversari): Hitler non è stato l’unico né il primo, il nazismo è nato come reazione al bolscevismo.

Ė una relativizzazione, non un’assoluzione. Ma la reazione in Germania è stata dura. La casa editrice, dopo la comparsa di un suo articolo sulla «Frankfurter Allgemeine», gli respinse il libro con il contratto già firmato, e il saggio venne respinto da altre sei «case» prima di poter giungere in libreria. «I colleghi italiani», mi disse Nolte, «anche se non sono d’accordo con me, mi trattano con una correttezza molto rara in Germania».

Ai discorsi sul passato i tedeschi reagiscono con il mutismo, o con reazioni incontrollate, preoccupati di convincere l’interlocutore (e se stessi) che loro «non sono come gli altri». Il 9 novembre dell’88, che era ancora solo l’anniversario della «notte dei cristalli», e nessuno prevedeva che un anno dopo sempre in quel giorno sarebbe crollato il «muro», il presidente del Bundestag, Jenninger, commemorò leggendo male un bel discorso.

Lui, o meglio il suo ghostwrìter, spiegava perché il popo­lo tedesco seguì quel «fascinoso» fenomeno che fu Hitler, e nella notte di mezzo secolo prima diede alle fiamme le sinagoghe e mandò in frantumi le vetrine dei negozi di ebrei. Quel pogrom venne inscenato dall’alto ma il popolo collaborò volentieri, e quella notte, ammoniva Jenninger, dimostrava che la colpa era collettiva e non di pochi diabolici capi nazisti, come sarebbe più rassicurante credere. Ma le citazioni erano lunghe, e l’oratore non fece «sentire» le frasi tra virgolette, e i deputati distratti le presero per sue. Come osava sostenere che Hitler era «fascinoso»? Buona parte dei deputati «verdi» e alcuni socialdemocratici abbandonarono l’aula.

Lo scandalo costrinse Jenninger a dimettersi, e le reazio­ni tardive dall’estero non bastarono a salvarlo. L’amico Kohl lo «consolò» con il posto di ambasciatore a Vienna. Ma la sorte più triste toccò al «negro», autore del discorso. Considerato una delle più brillanti penne di Bonn, perse il posto, si diede al bere, la moglie lo abbandonò, venne sorpreso brillo al volante e perse anche la patente. Si può immaginare una storia simile a Roma, o Parigi, o Londra?

In Italia hanno frainteso anche la reazione del sindaco socialdemocratico di Darmstadt. Il borgomastro ha vietato in extremis una mostra di Sironi, non appena qualcuno l’ha informato che quel pittore, probabilmente a lui sconosciuto, fu un fan di Mussolini. Venne tacciato di oscurantista e bieco censore. Fra i critici più furibondi si distinse un rappresentante degli italiani all’estero, eletto a Stoccarda. Una deputata cristianodemocratica di Darmstadt, per far dispetto al borgomastro e dimostrare che lei sì di arte se ne intende, pensò bene di invitarlo a un dibattito. L’invito fu disdetto precipitosamente quando la buona signora scoprì che anche quell’acceso paladino della libera espressione artistica era un militante del nostro partito neofascista. Una commedia degli equivoci che in Italia si è preferito giudicare per il peggio.

In realtà quel sindaco non saprà distinguere Picasso da Giotto ma avrà pensato: all’estero ci stanno tutti addosso, e appena un ragazzotto pelato sventola una svastica grida­no al IV Reich. Meglio rimandare le tele al mittente.

Sironi era un opportunista, non un fanatico del Duce, ma gli artisti come lui in Germania non vengono perdonati O mecenate Ludwig che regala alla comunità musei zeppi di capolavori con i soldi guadagnati grazie alla cioccolata, ha la più grande collezione di artisti nazi, 3 o 4mila tele, ma non è mai riuscito a esporle. È vietato dalla legge. Nelle tele dei pittori con svastica si incontrano più mucche al pascolo e ninfe paffute, ignare e bionde sulle sponde dei ruscelli, che SS in marcia verso il sole sorgente e la gloria. Hitler li premiava mentre ordinava la distruzione delle opere degli artisti «degenerati» (che i suoi gerarchi previdenti nascondevano a casa o vendevano all’estero sotto banco), ma alcuni di loro non sono niente male, qualcuno, oso dire, è perfino meglio di Sironi. Ma provate a dirlo a un tedesco. Vi guarderà male, o con sospetto.

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Roberto Giardina, dal 1986 in Germania, è corrispondente per il QN (Giorno-Resto del Carlino- La Nazione) e Italia Oggi. Autore di diversi romanzi e saggi, tradotti in francese, spagnolo, tedesco. In Germania è uscito "Guida per amare i tedeschi", "Anleitung die Deutschen zu lieben" (Argon e Goldmann), "Complotto Reale" (Bertelsmann), "In difesa delle donne rosse" (Argon), "Hundert Zeilen", "Berlin liegt am Mittelmeer" (Avinus Verlag), "Pfiff", romanzo sulla Torino degli Anni Sessanta e la rivolta operaia di Piazza Statuto; "Attraverso la Francia, per non dimenticare il Belgio"; "Lebst du bei den Bösen?", "vivi tra i cattivi, la Germania spiegata a mia nipote"; e recentemente "Il Muro di Berlino. 1961-1989".

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