EBREI
Seguii Willy Brandt in Israele nel 1973. Era la prima visita di un Cancelliere tedesco a Tel Aviv e Gerusalemme. Se qualcuno poteva normalizzare i rapporti tra la Germania e Israele, questo era Brandt, l’uomo della Ostpolitik, della distensione, il Cancelliere che aveva osato inginocchiarsi nel ghetto di Varsavia. Davanti all’Hotel King David a Gerusalemme ci attendeva un gruppo di manifestanti con cartelli in pugno: «We like Willy», c’era scritto, ma la riga seguente precisava: «Ma Willy non è un tedesco».
I rapporti tra Israele e Germania resteranno sempre «molto particolari», e non c’è da lamentarsene troppo, in fondo. Ed i tedeschi sono costretti a tacere quando nel mondo si levano proteste contro la politica di Tel Aviv. Quando concedono aiuti, vengono accusati di «voler comprare il passato con i loro Deutsche Mark». Ma se li dovessero negare, verrebbero ugualmente accusati di «insensibilità».
Un rimprovero ingiusto viene mosso anche agli israeliani: quello di sfruttare i morti per ottenere sempre più soldi e aiuti vari, non escluse le armi, da parte di Bonn. Una situazione senza vie d’uscita da una parte e dall’altra, nonostante gli inviti alla ragionevolezza e alla riconciliazione che periodicamente vengono ripetuti da intellettuali ebrei. «La buona volontà dei tedeschi deve essere riconosciuta anche dalla nostra parte», dichiara lo scrittore Schalom Ben-Chorin, ottant’anni, nato a Monaco. Nel 1935 fuggì dalla Germania di Hitler in Israele, dove vive a Gerusalemme, e continua a scrivere in tedesco. Solo due dei suoi libri sono stati tradotti in ebraico.
«I rapporti tra ebrei e tedeschi sono ancora una piantina delicata», ammonisce Ben-Chorin, «e il nuovo antisemitismo in Germania risveglia antiche paure, ma una colpa collettiva non c’è, e anche di una vergogna collettiva non si dovrebbe parlare: esiste una responsabilità collettiva. Quel che io chiedo ai tedeschi è una solidarietà critica. Più a loro che ad altri popoli».
L’11 per cento degli israeliani è convinto che la Germania d’oggi sia «sicuramente democratica», e un altro 50 per cento la ritiene «quasi sicura». La stessa percentuale che giudica i naziskin un «pericolo per la democrazia». Ma la musica dell’«antisemita Wagner» continua a essere vietata in Israele, e allo stesso tempo il compositore tedesco è anche il più eseguito. La musica che accompagna i novelli sposi nel più sperduto kibbutz o nella capitale non è che la marcia nuziale del Lohengrin, solo che loro lo ignorano.
Da parte tedesca si risponde con un 76 per cento secondo cui «Israele è uno Stato come tutti gli altri», opinione del resto condivisa dal 27 per cento degli israeliani. Il 36 per cento ritiene sempre che «gli ebrei abbiano troppo influsso nelle questioni del mondo». E un altro 62 per cento vorrebbe porre uno Schlusstrich sul passato, diciamo un «taglio definitivo». Basta, non parliamone più.
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