Berlino è sempre stata una metropoli multiculturale, ma non multikulti come la vogliono oggi i fanatici del politically correct, dove tutti dovrebbero mischiarsi e omogeneizzarsi in una specie di maionese, che è finita come’era inevitabile per impazzire. Era una città in cui le diverse culture si incontravano, oggi si scontrano. È anche una città in continua trasformazione, che cancella il passato. Per conoscerla bisogna saper vedere quel che è scomparso: dodici pietre d’inciampo davanti a un anonimo supermercato, qui prima della guerra sorgeva un palazzo abitato da famiglie di ebrei benestanti, finiti quasi tutti a Auschwitz. E quel che si vede e che sembra antico, in realtà è cambiato.
Nel mio quartiere, a Charlottenburg, il Kanthotel nella Kant Straße, si trova allo stesso posto come negli Anni Venti. Allora apparteneva a una famiglia ebrea, si ignora dove sia finita. Oggi, a una grande catena internazionale, la Best Western. Lo leggo in un articolo della Berliner Zeitung, che spiega come mai a 500 metri ci sia una libreria specializzata in letteratura persiana. E sono stato spinto a compiere altre ricerche.
Qui giunse nel 1929, il giovane scrittore persiano Sadeq Hedayat, 26 anni, scrisse a un amico a Amburgo, di sentirsi a suo agio a Berlino, e di voler aprire una libreria. Ma non lo fece. Apparteneva a un’aristocratica famiglia di Teheran, un suo bisnonno fu un noto storico e poeta. Sadeq studiò al liceo francese, nel 1925 si trasferì in Belgio, ma a causa del clima era poi andato in Francia. Depresso, in quell’anno, il 1929, tentò il suicidio nella Marna, ma venne salvato da alcuni turisti. Giunse a Berlino, quindi tornò in Iran, e diede vita a un gruppo di scrittori, pittori, e attori. Tradusse Maupassant, Cecov, Rilke, Allan Poe, Kafka, e Sartre. Allora, era permesso.
Nel ‘36, pubblica il romanzo “La civetta cieca”, che inizia con la frase: “Nella vita ci sono ferite che come la lebbra nella solitudine divorano l’anima.” Sadeq si tolse la vita con il gas l’8 aprile del ‘51 a Parigi. Lasciò cento franchi per il funerale, è sepolto al Père Lachaise.
Nel 1996, a Teheran, lo scrittore e editore Abbas Maroufi viene condannato alla fustigazione e gli viene vietato di scrivere. Fugge a Berlino, con la famiglia, grazie all’aiuto di Günter Grass. Lavora come portiere di notte, risparmia per anni. Conosce la lettera di Sadeq all’amico di Amburgo, e infine riesce a realizzare il suo sogno ed aprire la libreria persiana nella Kantstrasse al numero 76, che è la più grande d’Europa. Come insegna “Die blinde Eule”, la civetta cieca, il romanzo di Sadeq. Era il Kafka dell’Iran, spiega ai clienti che gli chiedono il perché.
Maroufi, 63 anni, ha creato anche una casa editrice che pubblica autori iraniani vietati dal regime. Abbas non è musulmano e ha tre figlie che ha educato liberamente. Un Iran moderno è solo un bluff, dichiara. A Berlino si è sentito subito a casa, dice, nonostante il razzismo dei gruppi di estrema destra. Questa è una delle tante storie di Berlino, della metropoli che accoglie le culture senza preoccuparsi dei nomi delle strade, che non sarebbero politicamente corretti e ride per le decisioni della Berlinale, il Festival del Cinema, che abolisce gli Orsi d’argento per la miglior attrice o attore, e assegnerà solo premi Genderfrei. Berlino tenta da sempre di cancellare il suo passato, o di cambiarlo, ma per fortuna non ci riesce.
Commenti