“L’epidemia dilaga da mesi… e non si hanno notizie dal Governo”, scrive un corrispondente tedesco. Ma non da Roma. A firmare l’articolo è il poeta Heinrich Heine nel 1832, e lo pubblica il 29 aprile l’Allgemeine Tagesblatt, bisettimanale di Augsburg, la nostra Augusta. A 33 anni, si è trasferito a Parigi, entusiasta per la rivoluzione del 1830, e vi resterà fino alla morte nel 1856. Con i versi non si campa, e quindi scrive per i giornali. È un cronista attento, e le sue corrispondenze rivelano una straordinaria coincidenza con quel che avviene oggi a causa del Coronavirus. Anche Thomas Mann per il romanzo “Morte a Venezia” (1912), prese lo spunto dalle notizie di cronaca sul colera nella Laguna. Siamo sempre gli stessi innanzi alla paura di un male che non riusciamo a controllare.
“Hoffman und Campe” pubblica l’articolo in un volumetto, “Ich rede von der Cholera” (14 euro), io parlo del colera, con l’aggiunta della riproduzione delle pagine del giornale. Da rimarcare che Campe era l’editore delle poesie di Heine, una fedeltà da lodare, anche se i diritti d’autore venivano pagati con ritardo: «I miei versi sono la mia merce», protestò il poeta. Cotta, l’editore del giornale di Augsburg, è entusiasta: «La sua penna, scrive al corrispondente, fa scoccare scintille dalle pietre, e provoca un incendio».
Il primo malato viene registrato il 29 marzo. Il colera è partito dalla Russia nel 1830, ha raggiunto la Polonia, colpirà Londra e New York. Una diffusione lenta, oggi con i voli low cost il contagio avviene da un continente all’altro in poche ore. A Parigi, meno di un milione di abitanti all’epoca, le vittime saranno settemila le prime due settimane, e in totale 20mila, tra cui il primo ministro Casimir Périer, come se oggi il Coronavirus avesse provocato 60mila morti a Roma o a Berlino. Vengono sepolti in fretta, senza pietà. Ma la sera si balla, si beve champagne nei salotti. Si curano i colerosi con bagni caldi, con aceto sale e senape.
Chi può fugge dalla Capitale, lui resta: «non sono coraggioso, sono pigro… Tutti i miei conoscenti se ne partono, e si meravigliano che io rimanga, anche se non ho nulla da fare», (scrivere ieri come oggi non è considerato un lavoro). È una battuta. Resta, comunica all’editore, «perché voglio vedere quel che accade… tra i pericoli la paura è la più pericolosa». È un cronista serio, l’Herr Kollege Heinrich.
Non c’è il web, ma le fake news si diffondono veloci, basta la diffusione bocca a bocca. Si dà la caccia agli untori, a Parigi i feriti sono decine, i morti sei. Due sorpresi con una polverina bianca vengono linciati in Rue de Vaurgirard. Era cloruro considerato un rimedio al colera. La gente affolla i boulevard, osserva Heine, alcuni portano una mascherina, e vengono presi in giro, come l’ultimo week-end nella movida di Trastevere. Si diventa insensibili, «nello scrivere quest’articolo vengo disturbato dalle urla del mio vicino in fin di vita», confessa il poeta. In realtà, intende il contrario, è emotivamente coinvolto: «I salotti mentono, cioè colori che detengono il potere… e mente l’opposizione, non volontariamente, credono ciecamente a quel che dicono».
O si tace per interesse. Il 29 maggio del 1911, il Wiener Tagblatt, informa che a Graz è morto per il Cholera asiatica l’impiegato delle poste, Anton Franzky. A Venezia, ha mangiato ostriche e cozze. La moglie, i figli, gli amici vengono messi in quarantena. Thomas Mann, in vacanza al Lido, legge il giornale, il due giugno torna precipitosamente a Monaco. Il 4 giugno, le autorità veneziane smentiscono. «Gli italiani tacciono», denuncia il Berliner Volksbaltt, «al contrario dei cinesi che hanno reagito prontamente». I veneziani hanno paura di perdere i turisti in occasione delle celebrazioni per i 50 anni dell’Unità d’Italia. I morti saranno 4.228.
A marzo scorso, è morto un mio vicino di casa a Berlino, un amico. Era andato in vacanza a Ischgl, stazione turistica, e primo focolaio del virus in Austria. Gli austriaci tacquero a lungo per non perdere la stagione sciistica.
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