Guida per amare i tedeschi

La Germania aveva gli occhi verdi

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La Germania aveva gli occhi verdi

Le note, diciamo intime, o le banalità sul cane o sulla freschezza delle ostriche, «cenato con Alma (Mahler-Werfel), champagne, ascoltato disco di Berg», servono da alibi per dare forza di verità a giudizi duri, spietati, su questo o quel personaggio, che Mann vuole vengano conosciuti ma che maschera da osservazione privata. Ed essi acquistano uno straordinario sapore di verità grazie ai bombardamenti alleati e all’atomica su Nagasaki.

Uno dei più fini umoristi tedeschi che abbia conosciuto è stato il grande ammiraglio Dönitz, il comandante degli U-Boote, e successore di Hitler per qualche giorno. La TV italiana mi aveva chiesto di intervistarlo e lui mi disse di sì, a patto di leggere le domande in anticipo. Gliele mandai.

La mattina seguente il telefono squillò mentre facevo il bagno: «Non risponderò mai a queste domande», urlò l’ammiraglio. Gliene mandai altre. Ero sempre nella vasca da bagno quando Dònitz mi chiamò di nuovo. Non andavano ancora bene. L’ammiraglio per uno scherzo del destino continuò a chiamarmi sempre quando ero sott’acqua.

«Herr Gross Admiral», gli dissi, «lei può anche scriversi le domande che preferisce». E così fece, ma qualcuna delle mie finì coll’accettarla. Per problemi di organizzazione le mandai a Roma, e la TV le tradusse e le rispedì direttamente a Dönitz. Io ebbi il torto di non controllare la mia copia.

L’ammiraglio era anziano, scorbutico e un po’ duro d’orecchio. A evitare nuove complicazioni chiesi a una mia amica tedesca, orfana di un ufficiale di marina, di accompagnarmi. Le domande le avrebbe lette lei, con più garbo.

Lei si vestì di blu e mise in riga la mia sterminata troupe. Dönitz abitava ad Aumühle, leggiadro sobborgo di Amburgo, e l’appuntamento era per le tre. «Non dobbiamo giungere né un minuto prima né un minuto dopo», si raccomandò. Aspettammo l’ora fatidica in un caffè all’aperto su un laghetto popolato di cigni neri mentre lei leggeva le domande tradotte da Roma.

«Questa è una domanda stupida», mi avvertì sdegnata.
«Non ti preoccupare, alla TV piacciono le domande stupide», la rassicurai.

Bussammo alle tre e la porta si spalancò all’istante. L’ammiraglio ci accolse di persona e la troupe di tecnici romani gli invase la villetta. Dònitz si assoggettò con stoicismo alle loro esigenze. Sul tavolino innanzi a lui era in mostra la sua maschera mortuaria preparata con buon anticipo. Alle spalle la foto del figlio scomparso a bordo di un sommergibile.

La mia amica cominciò a leggere le domande, anche quella stupida, ed io rabbrividii. I traduttori di Roma avevano scambiato posto a una parola con effetti catastrofici in una lingua precisa come il tedesco. Invece di «Lei pensa oggi che si poteva sbarcare in Inghilterra?», sentii la figlia del capitano della marina del Reich leggere con voce perfetta: «Lei pensa che si potrebbe sbarcare oggi in Inghilterra?».
«Certamente», rispose impassibile il Grande Ammiraglio, «con un traghetto o con uri aliscafo. »

II successore del Fuhrer aveva il senso dell’umorismo. Per non interrompere l’intervista lasciai che si giungesse alla fine, e quindi rompendo gli accordi chiesi a Dònitz di rispondere alla domanda che non aveva ricevuto per iscritto.

«Si poteva sbarcare allora?», gli domandai direttamente, e lui mi rispose, anche se non ero vestito di blu.
«Certamente», riprese. E continuò a braccio per cinque minuti. La risposta chiave di quell’intervista e di tutto il servizio sui superstiti del III Reich. Si poteva sbarcare ma non sarebbe servito a nulla, perché senza appoggio aereo, per colpa di quel testone di Göring, gli inglesi avrebbero inchiodato gli invasori sulla spiaggia. Mentre parlava, i miei tecnici gli svuotarono la scatola di biscotti in cucina. L’ammiraglio ci accompagnò alla porta e sulla soglia disse alla mia amica: «Mi dispiace per suo padre».
«Non è morto sulla nave, ma in congedo a terra, sotto un bombardamento». Capii che glielo diceva per non farlo sentire in colpa. Ma sbagliavo.
«È più triste», osservò Dònitz. Giustamente. «Ti avevo detto che era una domanda stupida», ripetè la mia amica ancora con le lacrime agli occhi.
«Potevi pur spostare quell’Afte, quell’oggi, se avevi capito».
«Ho obbedito ai tuoi ordini. Voi stranieri non pensate che i tedeschi obbediscono sempre agli ordini?». E scoppiò a ridere. Risi anch’io. Non sia mai che un tedesco possa sospettare che noi italiani non abbiamo il senso dell’umorismo. E ci dividemmo l’ultimo biscotto di Dònitz che il tecnico del suono aveva trafugato. Avrei dovuto tenere la mia metà per ricordo.

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Roberto Giardina, dal 1986 in Germania, è corrispondente per il QN (Giorno-Resto del Carlino- La Nazione) e Italia Oggi. Autore di diversi romanzi e saggi, tradotti in francese, spagnolo, tedesco. In Germania è uscito "Guida per amare i tedeschi", "Anleitung die Deutschen zu lieben" (Argon e Goldmann), "Complotto Reale" (Bertelsmann), "In difesa delle donne rosse" (Argon), "Hundert Zeilen", "Berlin liegt am Mittelmeer" (Avinus Verlag), "Pfiff", romanzo sulla Torino degli Anni Sessanta e la rivolta operaia di Piazza Statuto; "Attraverso la Francia, per non dimenticare il Belgio"; "Lebst du bei den Bösen?", "vivi tra i cattivi, la Germania spiegata a mia nipote"; e recentemente "Il Muro di Berlino. 1961-1989".

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